Per decenni l’istituzione universitaria è stata dipinta come il passaggio cruciale verso un futuro professionale stabile e soddisfacente. Tuttavia, se si esamina con occhio critico la reale funzione dell’università nel contesto socio-economico contemporaneo, emerge una dissonanza sostanziale tra ciò che promette e ciò che effettivamente offre. L’università non prepara alla complessità del mondo del lavoro: forma individui in grado di navigare il sistema accademico, non soggetti pienamente attrezzati per affrontare le sfide dinamiche del mercato globale. Le competenze richieste oggi dal mondo produttivo non sono più legate alla mera padronanza di nozioni astratte, ma all’interconnessione tra saperi pratici, flessibilità cognitiva e capacità relazionali.
I dati ISTAT del 2023 parlano chiaro: oltre il 35% dei laureati under 35 è impiegato in settori scollegati dal proprio percorso formativo. Questa discrepanza segnala un problema più profondo dell’inadeguatezza degli sbocchi occupazionali: l’università continua a trascurare aree di apprendimento fondamentali per la carriera e per la vita quotidiana. Inoltre, i percorsi formativi si dimostrano spesso lenti nell’adattarsi all’evoluzione tecnologica e ai mutamenti nei processi produttivi, aggravando ulteriormente il disallineamento tra formazione e domanda occupazionale.
Soft skills: il grande assente del piano di studi
Le cosiddette competenze trasversali, o soft skills, rappresentano un ambito cruciale per l’inserimento e la crescita professionale, ma vengono sistematicamente ignorate nei piani didattici. Comunicazione efficace, leadership, gestione dei conflitti, negoziazione: sono abilità essenziali che difficilmente trovano spazio nei corsi universitari, nonostante la loro centralità nei contesti organizzativi reali. In un ambiente in cui il lavoro di squadra, l’empatia, la gestione dello stress e l’adattabilità sono quotidianamente richieste, l’incapacità dell’università di integrare tali dimensioni appare anacronistica.
L’università eccelle nel formare tecnici e specialisti, ma fallisce nel coltivare la capacità di guidare, innovare e influenzare. Le relazioni interpersonali, la capacità di networking, la costruzione della reputazione professionale online sono trattate come marginali, quando invece rappresentano asset strategici. In un mercato dove la competizione si gioca anche sul capitale sociale, tale lacuna può rivelarsi fatale. E non si tratta solo di lavorare con gli altri, ma di saper leggere i contesti, interpretare segnali deboli, negoziare posizioni complesse: tutti aspetti che richiederebbero esercitazioni pratiche, simulazioni, laboratori di realtà.
Il mito dell’esperto e la morte della creatività
Il modello epistemologico universitario tende a premiare la ripetizione, la standardizzazione, la conformità alle strutture teoriche consolidate. L’atto creativo – inteso come rottura, come proposizione di alternative – viene spesso neutralizzato dalla rigidità della valutazione accademica e dall’autorità non negoziabile del docente. La lezione frontale rimane il metodo dominante, mentre forme didattiche più aperte e sperimentali vengono relegate a contesti extra-curriculari, se non totalmente escluse.
Chi solleva interrogativi fuori dai binari convenzionali viene spesso marginalizzato. Chi tenta un approccio eterodosso rischia di essere dissuaso. Eppure, l’innovazione è frutto di contaminazioni, errori, deviazioni. Le realtà professionali più dinamiche non cercano la padronanza pedissequa dei manuali, ma la capacità di generare soluzioni originali e di adattarsi a contesti in continua evoluzione. Inoltre, la creatività non è un lusso o una dote innata: può e deve essere allenata, ma serve un contesto che la favorisca, la riconosca e la legittimi. Senza questo spazio, si alimenta una cultura della mediocrità ben mascherata da formalismo accademico.
Educazione finanziaria: l’elefante nella stanza
Nonostante la crescente complessità delle dinamiche economiche individuali, l’università italiana continua a ignorare l’educazione finanziaria personale. Questo vuoto formativo risulta particolarmente paradossale nei corsi di area economico-giuridica, dove gli studenti possono terminare il percorso accademico senza aver mai acquisito nozioni pratiche di gestione del denaro, investimenti o pianificazione patrimoniale. La conoscenza di strumenti come fondi indicizzati, criptovalute, piani di accumulo o prestiti agevolati è lasciata all’iniziativa personale, con il risultato che molti giovani entrano nella vita adulta privi di basi per prendere decisioni finanziarie consapevoli.
Secondo una ricerca della Consob, oltre il 60% degli italiani adulti non possiede competenze finanziarie basilari. In un contesto in cui le scelte finanziarie incidono profondamente sulla qualità della vita, l’incapacità del sistema universitario di fornire strumenti cognitivi adeguati rappresenta una grave mancanza. L’analfabetismo finanziario non è soltanto una carenza personale: ha impatti sistemici, alimenta vulnerabilità sociali, limita l’accesso a strumenti di mobilità economica. Integrare l’educazione finanziaria in ogni percorso accademico dovrebbe essere una priorità strategica, non un’aggiunta opzionale.
Lavoro vero? Solo dopo la laurea (forse)
La transizione dal mondo accademico a quello lavorativo è spesso traumatica, anche per chi ha ottenuto ottimi risultati. Gli stage vengono spesso presentati come esperienze formanti, ma si riducono nella pratica a sfruttamento legalizzato. L’università raramente offre strumenti pratici per affrontare il mercato del lavoro: dalla redazione di un curriculum efficace alla gestione di un colloquio, dal posizionamento professionale su piattaforme digitali alla costruzione di una strategia di branding personale. I centri per l’impiego interni agli atenei sono spesso sottodimensionati, poco aggiornati sulle reali esigenze delle imprese e scollegati da un ecosistema di opportunità professionali dinamico.
Non è prevista alcuna formazione imprenditoriale, né viene incentivata l’iniziativa autonoma. L’indipendenza intellettuale e progettuale, invece di essere promossa, viene spesso soffocata da logiche valutative rigide e dalla necessità di aderire a criteri omogenei. I percorsi alternativi – startup, freelance, economia digitale – sono trattati come deviazioni marginali, anziché come espressioni legittime di un nuovo paradigma lavorativo. Inoltre, manca una cultura del fallimento come processo di apprendimento: tutto ciò che non rientra nei canoni del successo accademico viene escluso dalla narrazione formativa.
Conoscenza o conformismo?
Il rischio più insidioso è quello di confondere l’accumulazione di contenuti con l’acquisizione di sapere critico. L’università, in molti casi, si è trasformata in un apparato che riproduce modelli cognitivi prestabiliti e inibisce la riflessione autonoma. I percorsi formativi sono progettati per essere lineari, prevedibili, misurabili. L’imprevedibilità viene vista come una minaccia, la complessità come un ostacolo da semplificare, la soggettività come un errore da eliminare.
Tuttavia, apprendere in profondità significa anche entrare in conflitto con le certezze, esplorare territori ambigui, mettere in discussione le premesse. Il pensiero divergente, il dubbio metodico, la capacità di interrogare criticamente la realtà dovrebbero essere al centro della formazione, e invece vengono trattati come ostacoli alla didattica efficiente. Non si forma un cittadino consapevole imponendo un sapere univoco, ma offrendo gli strumenti per costruire uno sguardo critico e personale sul mondo.
L’università ha certamente un ruolo, ma è limitato e spesso sopravvalutato. Chi esce da un corso di laurea senza la consapevolezza di dover reimparare, sperimentare, disobbedire intellettualmente, rischia di portarsi dietro un sapere sterile, più utile a mantenere lo status quo che a trasformarlo. E il sapere che non trasforma, alla fine, non emancipa. Serve un’università capace di mettersi in discussione, di includere la realtà nelle sue contraddizioni, di riconoscere che il sapere non è un archivio da custodire, ma un processo da vivere.