Ci raccontano che la cultura sia un bene universale. Che tutti abbiano il diritto, e perfino il dovere, di accedervi. Ma sotto questa patina democratica si nasconde una verità più scomoda: la cultura non è per tutti. Non perché manchi l’accesso, ma perché manca la volontà, il tempo, l’attitudine. E forse, anche il bisogno. La cultura, quella vera, è fatica. Impone lentezza, dubbio, disciplina. Non si consuma come un video virale, non si digerisce come un feed social. Si abita. E non tutti vogliono, o possono, farlo.
L’illusione della meritocrazia culturale è diventata un mantra: “se ti impegni, puoi capire tutto”. Ma non è così. Capire richiede strumenti, contesto, sensibilità. Richiede anche un certo tipo di silenzio interiore, una disponibilità a lasciarsi mettere in crisi. Non è solo una questione di intelligenza o di studio. È una questione di apertura. E l’apertura non si insegna, non si impone. Si coltiva. O si rifiuta.
L’accesso non basta: serve desiderio
Mai come oggi abbiamo avuto così tante opportunità per accedere alla cultura. Libri, corsi, podcast, musei digitali. Tutto a portata di clic. Eppure, i dati dicono il contrario. Secondo l’ISTAT, più della metà degli italiani non legge nemmeno un libro all’anno. Non per mancanza di soldi. Non per mancanza di tempo. Ma perché non interessa. E questa è la vera frattura: la cultura non è esclusiva, ma è diventata irrilevante per molti.
Il problema non è solo la mancanza di fruizione. È la perdita di desiderio. La cultura è fatta di domande che non hanno risposte immediate. Di percorsi che non portano da nessuna parte. In un mondo che pretende velocità, produttività, utilità immediata, tutto questo è visto come uno spreco. Perché investire tempo in qualcosa che non serve? E così si scarta la cultura come si scarta un’app vecchia: non performa, non intrattiene, non monetizza.
L’inclusività culturale ha un prezzo?
C’è un’altra domanda che inquieta: è giusto voler rendere la cultura accessibile a tutti? O rischiamo di banalizzarla nel tentativo di semplificarla? Quando un classico viene riscritto in linguaggio elementare, quando un’opera complessa viene ridotta a slogan motivazionale, stiamo davvero includendo, o stiamo svuotando?
La divulgazione ha un valore enorme, ma diventa pericolosa quando si trasforma in intrattenimento puro. Quando semplificare significa tradire. La cultura non può diventare un prodotto da scaffale, adatto a tutti e privo di attrito. La frizione fa parte dell’esperienza. Se togli il disagio, togli anche la trasformazione.
Forse è il caso di dirlo apertamente: la cultura non è per tutti. E non c’è nulla di male. Non perché esista un’elite illuminata, ma perché non tutti la desiderano, non tutti la cercano, non tutti ne sentono la mancanza. Ed è giusto così? Forse sì, forse no. Ma è una realtà con cui dobbiamo fare i conti.
Chi sceglie la cultura oggi compie un gesto radicale. Perché la cultura non intrattiene. Disturba. Scomoda. Spezza narrazioni facili. Chi legge, chi studia, chi approfondisce, si sottrae al rumore. Interrompe il flusso. Dice no alla semplificazione. E questo è un atto di resistenza.
In una società che valorizza l’utile, il veloce, il semplice, scegliere la complessità è un gesto sovversivo. Non tutti lo faranno. Non tutti lo vorranno. Ed è proprio per questo che la cultura continua ad avere valore: perché non si lascia addomesticare. Perché non è per tutti. Ma è sempre per chi la cerca davvero.