Non ci riferiamo solo alla bottiglietta d’acqua acquistata distrattamente al bar ogni mattina. O al sacchetto del delivery che finisce nel cestino prima ancora di raffreddarsi.
Parliamo di tutto ciò che viene consumato e poi eliminato senza che ce ne accorgiamo.
Relazioni. Linguaggio. Tempo. Esperienze. Persino idee e convinzioni.
Siamo cresciuti in una società che ci ha insegnato che tutto è rimpiazzabile. Un tempo gli oggetti si riparavano, si aggiustavano, si tramandavano. Oggi si sostituiscono. Più rapido, più efficiente. Più “smart”. Ma anche più superficiale, meno coinvolgente. Meno umano.
Pensi di esserne immune?
Apri il tuo telefono. Quante conversazioni hai silenziato? Quante persone hai “smesso di seguire” senza un vero motivo? Swipe, silenzia, blocca. Un tempo si chiamava rottura, oggi è un’interfaccia. La tecnologia non ci ha solo cambiato le abitudini: ha riscritto il modo in cui gestiamo l’affettività.
E nel lavoro? Le competenze sono trattate come monouso. Un webinar oggi, un corso domani, un certificato dopo l’altro. Tutto temporaneo. Oggi si parla di soft skill, domani di cosa parleremo? La lealtà è considerata un anacronismo, la profondità un ostacolo alla produttività. L’importante è performare. Fino a quando? Fino al prossimo aggiornamento.
Pasolini parlava di “mutazione antropologica”. Aveva già intuito la logica dei trend, la smaterializzazione dei corpi e delle identità, l’assimilazione dei codici culturali in chiave consumistica. Se avesse visto TikTok, probabilmente non si sarebbe stupito.
Viviamo immersi in un flusso continuo che ci promette futuro e ci consegna solo presente. Un eterno presente fatto di novità senza radici. Obsolescenza programmata non solo per i device, ma per gli stili di vita. Per le emozioni. Per le persone.
Anche i sogni vengono aggiornati. Un tempo si desiderava costruire, creare, lasciare una traccia. Oggi si desidera emergere. Dove? Nel feed. In un frame da 15 secondi. Su Instagram, su TikTok, magari anche tra le anteprime di Netflix. Visibilità prima di sostanza. Notorietà prima di profondità.
Siamo diventati consumatori seriali e compulsivi. Di affetti, di informazione, di indignazione. E poi scrolliamo. Scrolliamo via le notizie, le emozioni, gli stimoli. Quel gesto meccanico è diventato il nostro modo di dimenticare. Il nostro modo di non sentire troppo.
Umberto Eco sosteneva che i social avessero dato diritto di parola a legioni di imbecilli. Ma forse il vero punto è che hanno dato il diritto alla dimenticanza. A sostituire la riflessione con la reazione. Una crisi climatica con una challenge. Un pensiero articolato con un meme.
Ma attenzione: non si tratta solo di responsabilità individuale. Non è tutta colpa nostra.
Siamo stati educati a vivere così. Ad associare l’intensità alla verità. A confondere la quantità di interazioni con la qualità delle relazioni. A pensare che l’autenticità sia un filtro ben riuscito. E che l’impegno, la dedizione, siano tratti da nostalgici o da ingenui.
Così anche chi si ritiene “consapevole” finisce per aderire inconsciamente alla logica dello scarto. Anche chi legge Orwell o ascolta un podcast di filosofia. Archivia, dimentica, passa oltre. Parole, legami, dischi interi. Chi ascolta più un album dall’inizio alla fine? Chi guarda un film senza interromperlo per leggere notifiche? Pochi. Sempre meno.
La cultura usa e getta non è solo un’abitudine di consumo. È diventata una struttura mentale. Un modello esistenziale. Un riflesso condizionato.
Per questo serve una pausa. Un’interruzione del flusso. Un momento per riflettere.
Quando è stata l’ultima volta che hai riletto un testo perché lo trovavi denso? Che hai domandato davvero “come stai?” aspettandoti una risposta complessa, forse scomoda? Che hai scelto di restare, nonostante la tentazione di andartene fosse più comoda?
Il nodo è qui: nella resistenza.
Resistere alla logica della sostituzione. Al cinismo mascherato da pragmatismo. All’efficienza come unico metro di valore. Resistere è ricordare che l’essere umano non è ottimizzato. È contraddittorio, lento, difficile. E meravigliosamente irripetibile.
Non è una nostalgia reazionaria. È un appello alla lucidità. Alla presenza. All’impegno.
Perché ogni volta che scegliamo di conservare – un legame, un pensiero critico, una pagina sottolineata, una canzone ascoltata per intero – compiamo un gesto controcorrente.
Un gesto profondamente, disperatamente, radicalmente umano.